Il PIL si perde off shore

«Bei tempi quando c’erano i soldi». «Bisogna stringere la cinghia». «Il welfare è figlio dell’epoca delle vacche grasse». Sono i ritornelli che tentano di giustificare i tagli alla sanità e al welfare, le scuole fatiscenti, le strade piene di buche. Ma è davvero così? No, visto che già nel 2010 il Fondo monetario internazionale ha stimato che nei soli paradisi fiscali dei paesi Caraibici ci fossero 18 mila miliardi (!) di dollari, circa un terzo del Pil mondiale. «Oltre la metà di tutti gli attivi bancari  e un terzo degli investimenti diretti delle imprese multinazionali vengono dirottate offshore», scrive lo studioso inglese Nicholas Shaxson nel suo libro “Le isole del tesoro” (edito da Feltrinelli) che vale un intero corso universitario di economia. Dalla City di Londra a Wall Street (le due aree “no tax” più corpose), passando per la Svizzera, le isole esotiche e i narcostati, sono infinite le opportunità per imboscare i soldi ai regimi fiscali. Una massa incommensurabile di denaro, dove si mescolano profitti delle multinazionali e capitali provenienti dalle mafie di tutto il mondo, viene così sottratta a impieghi di pubblica utilità. Aprire società e conti offshore è facilissimo: si pubblicizzano persino su Internet. Con un discusso provvedimento, nel marzo scorso il ministro dell’Economia Padoan ha tolto 21 Paesi dalla black list: ne restano comunque 46. La conseguenza è evidente: le tasse le pagano i ceti medi e bassi, non i ricchi; le imposte toccano alle piccole e medie imprese, non alle grandi, soprattutto se transnazionali. Come contrastare i paradisi che si trasformano in inferni per i cittadini? Nicholas Shaxson cita una decina di azioni. La più importante è il cambio di mentalità. Oggi gli squali della finanza vanno di moda: perché invece non dedicare le prime pagine ai banchieri onesti e responsabili? E soprattutto: a chi affidiamo i nostri risparmi?

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