Import-export di lavoratori

Si assume un operaio nei Paesi dell’Est dell’Ue, poi lo si trasferisce nelle fabbriche dello stesso gruppo, situate all’Ovest. Dove sta il trucco? Lo stipendio e le condizioni contrattuali rimangono invariati. Poche centinaia di euro al mese e tutele limitate. Li chiamano “posted workers” e sono lavoratori con la valigia. Polacchi, rumeni, bulgari, slovacchi. I sindacati denunciano da tempo questa concorrenza sleale (secondo alcuni anche illegale) che trascina al ribasso tutti i salari. Stavolta però a tuonare contro l’ennesima pratica che favorisce i pochi (le  multinazionali, che sono un numero sparuto del totale delle aziende, mentre è discusso il vantaggio per i lavoratori «importati») contro i moltissimi (i dipendenti di Paesi come Francia e Italia, per esempio) è stato il presidente francese Emmanuel Macron.

Da Parigi si è chiesta addirittura una riforma del mercato del lavoro europeo che consente, o perlomeno tollera, tali pratiche, di manifesto dumping sociale. Il rischio dell’idraulico polacco che toglie il posto a quello olandese o inglese è stato agitato nelle ultime campagne elettorali dai partiti di estrema destra, ma far finta che il problema non esista, è come mettere la testa sotto la sabbia. La questione è molto complessa e nasce a monte dall’aver unificato economie totalmente diverse, dalle norme nazionali al fisco. Macron ha sostenuto la necessità, intanto, di ridurre la durata di questi contratti da tre anni a uno ed è bastato questo per sollevare la protesta della Polonia.

La conseguenza di questi stratagemmi che sanciscono la fine del lavoro come valore sociale, è una disoccupazione sempre più diffusa negli stati fondatori dell’Europa e un malessere che per ora cova sotto la cenere. La storia insegna che di solito la rabbia non produce nulla di buono.

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