Capitale e cooperative

l dibattito nella moderna teoria economica della cooperazione ha visto confrontarsi diverse opinioni circa le differenze sostanziali tra impresa cooperativa e impresa di capitali.
Mentre sui vari aspetti che determinano l’efficienza aziendale non si è riusciti a dimostrare inferiorità strutturali della cooperativa, su un punto tuttavia la teoria, la pratica (e il legislatore) hanno convenuto, e cioè che l’impresa cooperativa sconta una grave difficoltà a reperire i capitali necessari per finanziare tutte le fasi della sua vita.
Fasi, tra l’altro, particolarmente sensibili quali l’avvio, la crescita rapida, e lo sviluppo di attività che richiedono un’alta concentrazione di risorse.
La logica democratica che contraddistingue l’espressione della volontà di lavoratori, persone, e stakeholders associati in generale, disincentiva l’attrazione di capitale speculativo, al contrario dell’impresa capitalistica che assegna potere in maniera proporzionale all’apporto di risorse. Disincentiva inoltre il carattere di “non-permanenza” delle partecipazioni sociali potendo lo stesso socio sempre rientrare della propria quota, come pure l’obbligo di limitare la remunerazione del capitale prevista anche dai principi internazionali della cooperazione.
Ecco perché le cooperative nascono aggregando il poco posseduto dai molti, che nella maggior parte dei casi corrisponde al lavoro e alla fatica utile al sostentamento di sé e della propria famiglia.
Per porre su un piano di parità competitiva le cooperative rispetto alle altre imprese si è reso necessario storicamente creare strumenti utili all’accumulo di capitale non speculativo: questi, pur non essendo riusciti a risolvere il problema alla radice, hanno consentito l’attuale sviluppo dei sodalizi.
Si tratta di strumenti, il cui numero e la cui varietà è notevole, nati grazie all’impegno delle cooperative stesse, dei loro soci, e grazie a un quadro normativo ad hoc.
Tra i più noti annoveriamo l’accumulo di riserve facilitato dalla detassazione nel caso di indivisibilità delle stesse, che ha il pregio di essere una delle migliori leve per lo sviluppo cooperativo, ma il difetto dell’accumulo lento nel tempo.
Oppure la creazione di finanziarie, sia tra e per cooperative sia per legge che in Italia istituisce i fondi mutualistici per la cooperazione nazionali, cui viene destinato obbligatoriamente il 3% degli utili delle coop.ve; quest’ultima casistica, molto importante, copre solo una parte minima delle esigenze del sistema.
Si pensi inoltre alle norme che consentono ai soci di finanziare la propria coop.va direttamente con ulteriori apporti rispetto al capitale minimo necessario per instaurare il rapporto sociale.
In questa direzione va anche il ruolo del socio “sovventore” che può detenere capitale senza partecipare allo scambio mutualistico: si tratta però di figure a cui viene riservato un numero di voti in assemblea fino al massimo di un terzo. In qualche caso le cooperative di maggiori dimensioni emettono anche obbligazioni, che però non forniscono la flessibilità del capitale puro e semplice.
Alcune grandi cooperative per raggiungere il mercato dei capitali privati hanno posto parti delle loro attività principali in società di capitali, mantenendone il controllo. Soluzione che più di altre mette in luce quali dimensioni e rischi comporti la sfida del controllo democratico con la necessità vitale di acquisire mezzi per lo sviluppo.
In altri casi un sostegno è venuto da investimenti diretti di capitale pubblico, generalmente dedicati a progetti specifici d’investimento in settori ritenuti ad alta valenza economica e sociale.
A questi, che sono solo alcuni esempi, si affiancano, nel nostro Paese come nel resto del mondo, una pluralità di esperienze, variabili da settore a settore, accumunate dallo stesso fine: capitalizzare al meglio le cooperative senza snaturarle.
L’esperienza sin qui maturata ci dice che se da una parte purtroppo non esiste uno strumento in grado da solo di risolvere il “dilemma del capitale” delle cooperative, dall’altra però è chiaro che un sistema cooperativo integrato con una legislazione attenta e efficace, che crei strumenti utili e equilibrati, può consentire, nonostante i limiti di ogni singolo caso, lo sviluppo della cooperazione.
Se è vero che la forma cooperativa è lo strumento d’impresa, come internazionalmente riconosciuto, che più di altri accompagnerà il mondo verso la sostenibilità, la democrazia e l’equità, è prioritario l’impegno politico delle istituzioni per riformare gli strumenti esistenti e investire nella ricerca economica per la creazione di nuovi. Le associazioni della cooperazione dal canto loro, oltre a concentrarsi ancora di più su questo tema, dovrebbero elaborare con maggior forza proposte sia per il miglioramento dell’esistente sia per avanzare proposte innovative.
Potrebbe essere valutato, ad esempio, un potenziamento da parte dello Stato dei fondi mutualistici, nonché la creazione da parte del sistema finanziario e creditizio cooperativo di fondi comuni etici che riescano a coniugare e tutelare le esigenze di risparmio delle persone con investimenti diversificati nella cooperazione.
La sfida della creazione di capitale cooperativo, non speculativo, che sia strumento e non attore di governo dell’impresa, è la base per la creazione di un’economia etica e merita indubbiamente un’attenzione politica e uno studio maggiore.

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Stefano Patrizi

Dopo la laurea in Economia Politica all’Università di Bologna, Stefano Patrizi è entrato in Legacoop occupandosi dapprima di commercio, turismo e risorse umane e quindi, dal 2010, al settore agroalimentare e consumo, seguendo anche i servizi connessi. Classe 1977, fa parte di “Generazioni”, il network formato da giovani cooperatori delle imprese di Legacoop Emilia-Romagna.