Lavorare tutti, lavorare meno. Sì, ma, però

La manifattura 4.0 mette a rischio posti di lavoro. Si discute su come affrontare l'emergenza. A pagare però non dovranno essere i dipendenti, ma se ne deve fare carico il sistema. Il rischio è molto grosso

Cosa succederà nel mondo del lavoro con l’introduzione della manifattura 4.0? Lo scenario non è dei più tranquilli. Tutti gli studi dimostrano che in molti casi saranno i robot a fare i lavori. Il tutto con un’inevitabile diminuzione dell’occupazione e un conseguente impoverimento del sistema. Ci saranno meno busta paga e, quindi, una conseguente diminuzione dei consumi e del pil. Un’idea che può piacere solo ai sostenitori della decrescita felice.

Su cosa potrà succedere per fortuna se ne parla con sempre maggiore insistenza. C’è chi ritiene che lo scenario più probabile sia quello del micro-impiego, con posizioni professionali ridimensionate nei compiti e nella durata dei turni di lavoro, in cui l’uomo funge da supporto all’automazione. Possibile un calo dell’impiego e delle remunerazioni, configurabile il tramonto definitivo di alcuni profili professionali, ma anche la nascita di nuove professioni.
E sono quindi necessarie sinergie tra Stato, privati, scuola e enti di formazione paralleli. Non c’è bisogno di un solo tavolo di discussione ma tanti tavoli da riunire con regolarità, perché il mondo del lavoro evolve (e lo fa da sempre) e sono i datori di lavoro a dovere tracciare le linee affinché vengano formate persone dotate delle competenze necessarie richieste.

Tra le proposte c’è quella del sociologo Domenico De Masi, tra i più stimati accademici italiani in materia di occupazione, a cui i 5Stelle hanno commissionato una ricerca, dal titolo «Lavoro 2025», sul probabile futuro del mondo lavorativo in Italia. Ne è nato un rapporto di oltre trecento pagine che contiene una ricerca che secondo lo stesso De Masi “ha una filosofia neo-keynesiana”.

Per la verità la proposta, contenuta nel libro “Lavorare gratis, lavorare tutti”, non è nuova né nello slogan e nemmeno nella filosofia. Il sociologo propone una settimana lavorativa di trentasei ore. Una soluzione identica fu adottata in Francia dal governo Jospin alla fine degli anni Novanta. La settimana era di 35 ore. Nello stesso periodo in Italia era il cavallo di battaglia di Fausto Bertinotti, Rifondazione comunista, che però non riuscì a convincere il quasi alleato Romano Prodi. La proposta è contenuta anche nel libro “Il sapere degli antichi greci” di Mirco Mariucci. Datato è anche lo slogan. “Lavorare meno, lavorare tutti” lo gridavano gli studenti durante i cortei degli anni Settanta.

De Masi in un’intervista rilasciata a La Stampa fa anche molta filosofia. Non si dice particolarmente preoccupato per la  rivoluzione industriale 4.0. Ritiene che sarà un’evoluzione assolutamente positiva, un nuovo Rinascimento. “Le future tecnologie renderanno migliore la nostra vita. Allo stesso tempo, però, distruggeranno più posti di lavoro di quanti ne creeranno. Anche se non varrà per tutti i mestieri e saranno richiesti lavori in cui siano centrali empatia e creatività”.
Poi entra nel merito della proposta: “Se chi lavora 40 ore settimanali riducesse il proprio orario a 36 ore, la disoccupazione si azzererebbe. Il punto, quindi è riuscire a convincere un occupato a cedere le sue ore a un disoccupato”.

Fin qui va bene la filosofia di base, ma perché devono essere i lavoratori a farsene carico?
Nell’intervista De Masi ha detto che serve una piattaforma online alla quale i disoccupati possano iscriversi per mettere a disposizione le proprie competenze gratuitamente. “Se su tre  milioni di disoccupati un milione lavorasse gratuitamente, si spaccherebbe il mercato, costringendo chi lavora di più a lavorare di meno». E un disoccupato dovrebbe lavorare gratis “per fare la rivoluzione. E poi, il vero dramma del disoccupato è non fare nulla tutto il giorno. Se iniziassero tutti a lavorare gratuitamente, nel giro di poco tempo troverebbero un lavoro pagato”.

Dal mio punto di vista proprio non ci siamo. È buona la filosofia, non l’applicazione. Non si capisce perché un disoccupato dovrebbe lavorare gratis o un occupato dovrebbe cedere parte delle proprie ore.

Di questa situazione a doversene fare carico è il sistema. Poi si può discutere se dovranno essere le aziende o lo Stato. Quello è un altro discorso. Una cosa è certa: non può essere il dipendente. Innanzitutto per un discorso di equità che dovrebbe essere alla base di qualsiasi proposta. Giustamente ci lamentiamo perché la classe media da questa crisi sta uscendo con le ossa rotta, quindi dobbiamo cercare un’inversione di tendenza. C’è poi un problema puramente economico. Continuando ad erodere gli stipendi si va a diminuire la capacità di spesa provando una contrazione dei consumi e quindi un grave danno all’economia.

Un’alternativa potrebbe essere il reddito di cittadinanza. Il ragionamento è anche giusto. Ma pare di difficile applicazione per i costi che aumenterebbero nel momento in cui la manifattura 4.0 provocasse più disoccupati. L’impressione è che finanziare una sana filosofia del “lavorare meno, lavorare tutti” avrebbe meno costi e più benefici sociali.

 

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Davide Buratti

Davide Buratti, giornalista professionista, fondatore della Cooperativa Editoriale Giornali Associati che pubblica il Corriere Romagna, di cui dal 1994 e per 20 anni è stato responsabile della redazione di Cesena. Oggi in pensione scrive di politica, economia e attualità a 360 gradi nel suo blog per Romagna Post. Per contatti utilizzate il box commenti sotto gli articoli. 

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