Ubuntu volta le spalle alla tribù e assomiglia sempre più a Apple

Ubuntu è un nome zulu (filosofia di origine sudafricana) e significa letteralmente “umanità”. Il termine viene utilizzato nel detto zulu “umuntu ngumuntu ngabantu”, traducibile con “io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti”. È a questa filosofia che faceva riferimento Mark Shuttleworth (sudafricano di Welkom) quando ha fondato Canonical, la società sponsor di Ubuntu, il software Open Source più famoso al mondo. Si parla però di tanto tempo fa (2004), quando il profitto non era un’ossessione e le opportunità sembravano infinite.

Ubuntu era l’utopia del web, una favola virtuale che ha permesso a milioni di utenti di sognare un mondo libero dal dualismo Windows – iOS. Di fatto, Canonical è nata con lo stesso modello di business di Red Hat, impresa che negli anni ’90 ha costruito il proprio successo fornendo supporto e consulenza ad aziende che, sui propri server, sceglievano di utilizzare sistemi Linux-based invece che proprietari, risparmiando sui costi di licenza.

Da questo progetto commerciale è nato quindi Ubuntu, un sistema operativo libero e gratuito basato su Linux che, a differenza di altri sistemi Linux-based, aveva l’obiettivo di essere user-friendly e poteva offrire ai principianti il supporto di una comunità molto attiva e ben organizzata. Ubuntu deve il suo successo proprio alla grande comunità che lo supporta, una comunità ben gestita ed organizzata da Mark Shuttleworth, fondatore ed autodichiarato “dittatore benevolo”.

Qualcosa è però cambiato e l’immagine di Shuttleworth ha iniziato ad essere accostata con maggiore insistenza a quella di Steve Jobs, il Male incarnato che ha costruito la propria fortuna sull’esclusione degli utenti.

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Il “trait d’union” tra i due personaggi sta nella scelta di Canonical, risalente al 2010, di sviluppare “Unity”, un’interfaccia che permettesse di non perdere terreno nel campo dei tablet e degli smartphone, dunque chiaramente indirizzata al mondo touch. Tale scelta è valsa un avvertimento di scomunica da parte degli utenti, i quali si sono sentiti in un certo senso abbandonati. L’accusa, gravissima, era che Shuttleworth si stesse sempre più disinteressando del mondo dell’Open Source.

Il sospetto è diventato una certezza quando Canonical ha annunciato di voler ridurre se non addirittura annullare il proprio supporto a diverse distribuzioni ufficiali derivate, invitando, in sostanza, gli utenti di Ubuntu a convergere in Unity.

Tutto questo era frutto della volontà di entrare di forza nel settore dei dispositivi mobili, trasformando però il sistema operativo “Open” in sistema operativo “sempre meno Open”. Ma c’è di più. La scelta di espandersi verso una fetta di mercato chiaramente remunerativa è dettata dall’intenzione di monetizzare gli investimenti sostenuti per sviluppare il progetto Ubuntu.

Il problema è che l’azienda sta per monetizzare anche gli sforzi che la sua comunità ha sempre offerto gratuitamente, ponendo non pochi interrogativi sull’accettabilità etica di tale comportamento.

In molti pensano che, senza l’aiuto della “tribù” di utenti e contributors, Ubuntu non esisterebbe. C’è da chiedersi se la scelta di cambiare completamente le proprie politiche per sposare un modello di business più sostenibile, arrivando a voltare le spalle a chi ti ha sostenuto e aiutato fino ad oggi, sia poi così conveniente.

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