Fare outing non è facile

di Guido Tampieri

da Setteserequi – 11/3/2016

Man with cardboard box on his head and sad crying face expression. Concept of sadness and depression.


 

Dopo la legge che ha posto fine alla discriminazione nei confronti degli omosessuali, quella del pessimista è la sola condizione civile che non trova riconoscimento politico e sociale. «Sei o sei mai stato comunista? » si chiedeva un tempo agli immigrati in arrivò a Ellis Island? «Non sarai pessimista?» è la reazione che suscita ogni accenno critico rivolto alla sorridente manutenzione dell’esistente. Ai comunisti si negava il visto di ingresso, ai pessimisti, considerati il loro equivalente sovversivo contemporaneo, si vieta l’accesso al cantiere del futuro. Tramontata l’illusione illuminista di un progresso rettilineo, l’ottimismo è diventato una superstizione civile. Dal cogito ergo sum di Cartesio siamo passati al penso positivo perché son vivo di Giovanotti. In mezzo, l’inutile esistenza di Giacomo Leopardi. Meglio imbecillì che pessimisti. Anche se la nave imbarca acqua e la chiglia andrebbe rifatta, perché il barometro segna tempesta. Essere pessimisti non è piacevole. Tanto più se ti porti dentro l’ammaestramento del Papa buono: «Non ho mai visto un pessimista giovare a qualcuno o a qualcosa». Non si matura questa inclinazione per scelta, che uno si sente anche in colpa. Piuttosto per esperienza, credo. Che poi, l’importanza dei pessimisti viene esagerata. Nessuno ascoltò Cassandra. I gufi, biologicamente parlando, sono quasi estinti.

É un po’ come la favola di Cappuccetto rosso, alla fine chi ci va di mezzo è il lupo. Sbarazzarsi dei pessimisti è facile. Basta etichettarli. Più difficile liberarsi di un ottimista, cui basta professarsi tale per avere credito. Qualcuno ha scritto che un pessimista è un ottimista informato ma in verità di gente che parla prima di conoscere se ne trova in un campo e nell’altro: questione di stile. Il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, la formula suggerita da Gramsci è la più convincente. Se tanta gente vede ombre nel futuro è perché gli ultimi vent’anni hanno ridotto le scorte della fiducia. Che mezzo secolo di pace e di conquiste economiche e sociali avevano accumulato. Leggi che 62 persone possiedono una ricchezza pari a quella di 4 miliardi di esseri umani e fatichi a credere che siamo in cammino verso il migliore dei mondi possibili. La volontà vorrebbe essere ottimista ma la ragione vacilla e rischia di trascinarla con sé.

Per essere ottimisti oggi, ha scritto Márquez, bisogna essere stupidi o milionari. Nessuno che abbia senso morale può dire che possiede la soluzione ai problemi del mondo ma certo non si può pensare di affrontarli con le stesse logiche che li hanno generati. Per uscire dalla crisi, dicono, bisogna crescere, non di uno o due punti di Pil, coi quali non ripagheremo mai il debito, ma molto di più. Ma se l’economia del mondo intero marciasse ai ritmi della Cina, che già stenta a mantenere il proprio, senza cambiare modi di produrre e di consumare, per quanto tempo potremmo farlo? Cinquant’anni, forse, e poi? Dentro gli schemi conosciuti il cerchio non si chiude. Da quando la crisi ha intimidito le nostre speranze abbiamo ridimensionato le domande e le aspirazioni. L’idea di futuro si è raggrinzita come una maglia di lana lavata nell’acqua calda.

Arriva a domani, a fine mese, a un’opportunità di lavoro decente, ma non include più un progetto di vita, l’eredità da lasciare alle nuove generazioni. I capi ostentano sicurezza. Ma gli accordi fantasma di Parigi sul clima, le tempeste finanziarie che scuotono i mercati, distruggendo ricchezza, posti di lavoro e aspettative di vita di milioni di persone, ci dicono che non hanno il controllo della situazione. Che la politica è prigioniera di dogmi economicisti sbagliati, in balia di processi che non riesce nemmeno più a mitigare, affidata a un pragmatismo che confina con la rinuncia, cieca espressione di un pensiero senza futuro. Non c’è pessimista più grande di un ottimista convinto che questo sentiero fangoso ci possa portare fuori dal bosco nel quale ci siamo perduti, che non sia necessario aprirsi nuove vie. O, almeno, provare a farlo.

Non c’è pragmatismo senza trasformazione, non c’è cultura del fare senza interrogazione. Le soluzioni, ancora una volta, nasceranno dal dubbio. La supremazia plurisecolare dell’occidente volge al termine. Saltano gli squilibrati equilibri del mondo e si generano nuove asimmetrie. Geografiche e sociali. Le bevute non vanno mai alla pari. La faciloneria ignorante è l’altra faccia delle rassicurazioni a buon mercato. Entrambe ci allontanano da una presa di coscienza della complessità. Della difficoltà di dar vita a un nuovo ordine mondiale in grado di salvaguardare la vita e la pace sulla terra, di imbrigliare l’aggressività distruttiva dei mercati finanziari, di cambiare il rapporto tra politica e economia, di ridurre le diseguaglianze fra le aree del mondo e fra le persone, di preservare garanzie sociali dignitose. Chi può dire se stiamo vivendo una crisi o un ridimensionamento? Come possa l’Europa col 7% della popolazione continuare a consumare il 50% delle risorse mondiali. Se c’è per l’Italia, nel mondo globalizzato, come dice Renzi, «uno spazio pazzesco» o non piuttosto un percorso lastricato di faticose conquiste. Per colmare il differenziale formativo dei nostri ragazzi. Per alzare il coefficiente di innovazione. Per sanare gli squilibri. Di un Paese che fa il culatello ma non produce nemmeno il cibo per sfamarci. Se solo una piccola parte di quel che temiamo è vera, un po’ di retorica in meno e qualche domanda in più non farebbero male.

 

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