Patrizia Turci (Tragitti): «Cooperare vuole dire partecipare»

Patrizia Turci è presidente della cooperativa sociale Tragitti che si occupa di cura e riabilitazione dei pazienti psichiatrici. La difficoltà di lavorare con casi considerati irrecuperabili (i “mostri”...) e la voglia di mettersi in gioco sempre senza delegare le scelte . «Quest’anno ci siamo dati il ristorno, ma abbiamo messo in discussione anche quello»

Turci Patrizia7 16-10-15

Ve lo prendereste in casa un “mostro”? Senza fare nomi, tanto se leggete un minimo di cronaca nera li potete scorrere nella mente tutti. Proprio quello che era nei titoli del telegiornale ieri: il “mostro”. Uno qualsiasi degli atroci casi giudiziari che finiscono fuori dalle patrie galere con una dichiarazione di semi-infermità mentale e pericolosità conclamata. La cooperativa sociale Tragitti, traducendo dal burocratese sanitario, fa anche questo. Nata come associazione di famigliari di sofferenti psichici, ha come missione quella di curare il malato di mente in un contesto più simile alla famiglia che a un ospedale. Possibile? Anche nei casi più gravi? E lo stigma sociale? Gli articoli di giornale? La paura che riemerge periodicamente? Patrizia Turci, la presidente, non si scompone più di tanto, né si allontana dagli ideali di Franco Basaglia che l’hanno fatta cominciare giovanissima.
Cosa fate quando arriva il “mostro”?
Semplicemente lo trattiamo come gli altri pazienti. Nel momento in cui una persona viene ritenuta incapace di intendere e di volere per noi è malato e va curata. È difficile da capire, ma in un un certo senso siamo al lato opposto della magistratura, perché noi siamo terapeuti, per cui sospendiamo qualsiasi giudizio e curiamo, mentre il loro lavoro termina proprio con un giudizio. Senza che questo, ovviamente, impedisca di collaborare. Non nego le difficoltà, ma credo nessuno possa negare che prima fosse molto peggio.
 Prima? Intendi quando c’erano gli ospedali psichiatrici? Com’era prima?
Era un mondo terribile, di segregazione e dolore. Spesso mi sono chiesta perché le istituzioni totali – a partire dai campi di concentramento – abbiano tutte le stesse caratteristiche, non solo architettoniche, ma anche di presunta autosufficienza. Una volta entrati avresti potuto chiudere la porta per sempre, perché dentro  c’era tutto, dal bar al generi alimentari, al parrucchiere.
Due infermiere per quaranta persone non servivano a curare, servivano a isolarli dal mondo dei “sani”. La scommessa invece è credere che “siamo tutti un po’ sani”, come abbiamo intitolato un nostro convegno di qualche tempo fa, e che una guarigione sia possibile.
È davvero possibile?
Prima bisogna ridare dignità alle persone malate e spostarle in un contesto di cura, non di dolore perenne.  Al di là del caso mediatico singolo, le statistiche ci dicono che la stragrande maggioranza dei reati sono commessi dalle persone “sane di mente”.
Ma la guarigione psichiatrica non è solo un’utopia?
La guarigione esiste. C’è una guarigione clinica e una guarigione sociale. L’isolamento non aiuta. Non è così per tutti, ma per qualcuno il disagio può anche diventare qualcosa con cui si impara a convivere.
Il nostro è un modello  integrato, un intervento multidisciplinare e multimodale, in cui si cerca di riportare il malato a contatto con il tessuto sociale, utilizzando le risorse che questo offre. Non è facile, ma è lo strumento con cui abbiamo ottenuto i risultati migliori.
Però di fronte a casi particolarmente gravi non servirebbe tornare a quel mondo di istituzioni totali?
Non sono i miei ideali che parlano, è l’esperienza di tutti i giorni che mi dice che non servirebbe a niente. Abbiamo avuto come ospiti persone che hanno commesso reati terribili. Parafrasando il titolo di un film: «Si può fare».
Voi siete una cooperativa sociale. Come avete vissuto la progressiva perdita di reputazione del settore dopo i noti scandali romani?
Il problema non sono tanto gli scandali. Il problema è che ormai ci eravamo convinti di essere i più bravi. Quando cadi dalla cima delle scale rischi sempre di farti più male. Viviamo in un’epoca in cui occorre sempre ricordarsi di domandarsi se la cooperazione abbia ancora un senso.
Perché?
Perché è inutile negarsi che con il tempo il nostro modello ha perso qualcosa, non solo per responsabilità dei gruppi dirigenti. Quanti dei soci delle cooperative aderenti alle centrali dell’ACI sanno esattamente cosa succede all’interno della loro cooperativa e hanno voglia di metterci le mani?
E quanti invece sono contenti in ogni modo, purché alla fine del mese arrivi lo stipendio? Tutti abbiamo dei diritti, ma anche dei doveri. In questo la crisi economica, com’è ovvio, non aiuta.
Gaber cantava che la libertà è partecipazione: è ancora così nelle cooperative?
L’attuale contesto socio-culturale e politico è molto differente rispetto a quello in cui sono nate le cooperative. La partecipazione è importante, ma occorre stimolarla, a tutti i livelli e farsi tutti i giorni questa domanda: che senso ha lavorare in una cooperativa? Se è solo per lo stipendio, che pure è importante, allora abbiamo fallito come modello.
Cosa pensi degli attacchi alla reputazione delle cooperative in corso da più parti?
Iniziative di sensibilizzazione come “Stop False Cooperative” sono importanti. Ma allo stesso tempo, come movimento, credo che dobbiamo renderci conto che il primo posto in cui occorre guardare è al nostro interno. Non è facile, ma non è impossibile.
Dentro a Tragitti la partecipazione com’è?
C’è molta dialettica. Per fortuna, dico io. Ti faccio un esempio: nel corso dell’ultima assemblea i soci hanno deciso di assegnare il ristorno, ma prima c’è stata una lunga discussione sulla quota da lasciare a fondo di riserva indivisibile. Di solito riusciamo a raggiungere una sintesi convincente e anche in questo caso ci siamo riusciti.
Cosa è cambiato con la nascita di Ausl Romagna?
Purtroppo non è cambiata la difficoltà che hanno le cooperative che hanno fatto investimenti, come noi, nel programmare la loro attività su un periodo che non sia brevissimo.
E a livello associativo?
È fondamentale avere rappresentanti territoriali, perché le cooperative sociali sono parte integrante di un territorio ed è lì che avviene la programmazione. Questo non è cambiato e credo che occorra tenerne conto anche a livello associativo. L’importante è la capacità di ascolto.

a cura di Emilio Gelosi

Questo post è stato letto 67 volte

Avatar photo

Emilio Gelosi

Giornalista professionista. Nel 2013 da una mia idea è nata RomagnaPost, il multi blog che parla della Romagna. RomagnaPost non è una testata registrata, ma una infrastruttura tecnologica, uno spazio virtuale di aggregazione dei contenuti in cui scrivono i migliori autori della Romagna. Ogni autore è responsabile in prima persona di quanto scrive. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *